Riconoscimento del Diritto Umano alla Pace: anche DPI Italia sottoscrive l’appello. Tutti possiamo contribuire!*

Colomba della Pace di Pablo PicassoDPI Italia sottoscrive questo appello e incoraggia tutte le associazioni aderenti e le loro reti affinchè si facciano promotrici presso i propri Comuni di riferimento per l’adozione di un Ordine del Giorno che riconosca la pace quale diritto umano fondamentale della persona e dei popoli.

In questi giorni, i Consigli dei Comuni italiani, da Marsciano a Desenzano, da Certaldo a Reggio Emilia, da Mesagne a Oderzo a Cattolica, da Novara a Guagnano, da Corciano a Rovereto, stanno facendo a gara nell’approvare un Ordine del giorno, spesso su iniziativa diretta del Sindaco, a supporto del riconoscimento giuridico del diritto alla pace quale diritto fondamentale della persona e dei popoli.

Fonte: Archivio Pace e Diritti Umani dell’Università di Padova – Il testo della mozione, preparato dal Centro di Ateneo per i Diritti Umani dell’Università di Padova e dalla Cattedra Unesco Diritti Umani, Democrazia e Pace presso la stessa Università, è stato diffuso dal Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la Pace e i Diritti Umani. I Comuni dimostrano così di volere essere partecipi di un processo in atto al Consiglio Diritti Umani delle Nazioni Unite, teso a mettere a punto una solenne Dichiarazione sul diritto umano alla pace.

La bozza della Dichiarazione sta incontrando l’opposizione di alcuni stati, che non intendono rinunciare allo ius ad bellum, e il favore di centinaia di organizzazioni non governative beneficianti di status consultivo alle Nazioni Unite. In Italia, a partire dal 1988 il formale riconoscimento della pace come diritto della persona e dei popoli, figura negli Statuti di centinaia di Comuni e Province e in apposite Leggi di numerose Regioni. A giusto titolo i Governi locali e regionali italiani possono vantarsi di avere anticipato e stimolato il diritto internazionale in materia e pretendere quindi che la Dichiarazione delle Nazioni Unite venga approvata.

Scarica l’Ordine del Giorno per il riconoscimento internazionale del diritto umano alla pace (link esterno all’Archivio Pace e Diritti Umani)

* Titolo originale: A valanga i Comuni italiani stanno deliberando sul diritto umano alla pace

Perché un monumento sarebbe anche educativo

«Chiaramente – dichiara Silvia Cutrera, impegnata tra l’altro nella realizzazione del progetto internazionale “HABM: The Holocaust of All. Battle of Memory” – la conoscenza dell’orrore nazifascista può essere realmente trasmessa solo attraverso un ampio percorso pedagogico e didattico, e tuttavia uno spazio e un riferimento evocativo di tutte le vittime, persone con disabilità comprese, avrebbe anche una preziosa funzione educativa»

Fonte: superando.it – «Nel 2013 – ricorda Silvia Cutrera, presidente dell’AVI di Roma (Agenzia per la Vita Indipendente), componente della Segreteria di DPI Italia (Disabled Peoples’ International) e impegnata nell’attuazione del progetto internazionale HABM: The Holocaust of All. Battle of Memory – una Delibera approvata dal Comune di Roma, su iniziativa della consigliera Gemma Azuni, aveva dato la speranza di poter vedere la realizzazione di un monumento che ricordasse le vittime del nazifascimo “orfane di memoria”, vale a dire le persone omosessuali, transessuali, quelle con disabilità, i rom e i sinti, anche se in realtà esiste già una lapide che ricorda questi ultimi, in Via degli Zingari 54, dove ogni anno, il 27 gennaio, Giorno della Memoria, una fiaccolata ricorda gli stermini dimenticati».

Come interpretare, dunque, questa perdurante assenza? «L’assenza di una targa commemorativa per l’Homocaust e l’Aktion T4 [le parole con cui vengono rispettivamente denominati la persecuzione e lo sterminio delle persone omosessuali e di quelle con disabilità, durante il nazismo, N.d.R.] – ci risponde Cutrera – pone l’interrogativo su quale sia la memoria collettiva della nostra città in merito a questi stermini, quanto è stato condiviso e quali siano le sensibilità istituzionali interessate a rappresentare, senza discriminazioni, la Storia, quella con la S maiuscola».
Ma non pensa, chiediamo, che la conoscenza dell’orrore nazifascista, più che di luoghi di memoria e simboli, abbia bisogno soprattutto di un percorso pedagogico e didattico? «Certamente – concorda la Presidente dell’AVI – e infatti le nostre attività associative sono costantemente rivolte ai giovani, che incontriamo nelle scuole dove attivamente proponiamo seminari, laboratori e incontri. Già nel 2009, ad esempio, insieme alle Associazioni Opera Nomadi e Mario Mieli (Circolo di Cultura Omosessuale), coordinati all’interno della Casa della Memoria dal Delegato alla Memoria Claudio Procaccia e con l’ulteriore assistenza storico-scientifica del professor Giorgio Giannini, abbiamo presentato agli uffici del Dipartimento Politiche Educative del Comune di Roma, anche di concerto con la Comunità Ebraica e l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia), un progetto di intervento nelle scuole romane, preceduto per altro dalla pubblicazione di un filmato (con il Consiglio Provinciale di Roma) e di un libro (Casa Editrice CISU) specifici. Nell’ottobre dello scorso anno, tale Progetto è stato ripreso in considerazione dall’assessora comunaleAlessandra Cattoi».
«E tuttavia – prosegue Cutrera – offrire a tutta la cittadinanza romana uno spazio e un riferimento evocativo di tutte le vittime del nazifascismo avrebbe anche il merito di restituire la funzione educativa all’Amministrazione Capitolina».

E negli altri Paesi cosa si è fatto? «In altri Paesi – è la risposta – sono già sorti dei monumenti; recentemente, ad esempio, è stato inaugurato a Tel Aviv, in Israele, il Memoriale in onore delle vittime omosessuali, come già era accaduto in altre città in Europa, quali Berlino e Amsterdam. Collocato al centro della città, è un triangolo bianco in cemento, che reca all’interno un piccolo triangolo rosa, il colore usato dai nazisti nei lager, per gli omosessuali, in ricordo di circa 15.000 vittime. Verrà invece inaugurato nell’autunno prossimo a Berlino, nella piazza antistante la Filarmonica, un nuovo Memoriale dedicato allepersone con disabilità uccise dai nazisti durante la cosiddetta Operazione Aktion T4. Esso sorgerà laddove un tempo era ubicata la Cancelleria del Terzo Reich, in Tiergartenstrasse 4, dove fu pianificata l’operazione di sterminio delle vittime con disabilità. Circa 250.000 di queste – è sempre bene ricordarlo – furono assassinate, di cui, tra il 1940 e il 1941, circa 73.000 eliminate segretamente nei sei centri di uccisione appositamente adattati con camere a gas. I responsabili di ciò, che si erano appunto specializzati ad uccidere con il gas, furono ricollocati nell’Operazione Reinhard, l’inizio del genocidio delle persone ebree».

Qual è dunque il suo auspicio, chiediamo in conclusione a Cutrera? «Semplicemente che questo 2014, anno in cui ricorre il 70° anniversario delle Fosse Ardeatine e della Liberazione di Roma, porti all’occasione giusta per ricordare tutte le vittime del nazifascismo, oltreché per integrare finalmente la Legge 211/00 [Legge istitutiva del Giorno della Memoria, che non indica la necessità di ricordare che tra le persone sterminate ci fossero quelle con disabilità, né i rom, né i sinti, né le persone omosessuali, N.d.R.],  come tra l’altro ventitré Senatori chiesero invano già nel 2006 all’allora Governo Prodi – su nostra diretta sollecitazione – tramite una Proposta di Legge integrativa. E auspichiamo anche che non venga più “dimenticata”, ancora una volta,  la nostra presenza paritaria e permanente aiViaggi della Memoria organizzati dal Comune di Roma, che portano gruppi di studenti in visita ai luoghi della Shoah». (S.B.)

vecchia foto di pullman con vetri oscurati

I pullman con i finestrini oscurati della “Società di Pubblica Utilità per il trasporto degli ammalati” in attesa di caricare i pazienti e le persone con disabilità da uccidere, nell’ambito dell’”Aktion T4″ (per gentile concessione di Olokaustos)

Caro nipote di Umberto Eco, occhio alle parole sulla disabilità

penna stilografica su foglio biancodi Franco Bomprezzi
Caro nipote di Umberto Eco, non conosco il tuo nome, non so quanti anni tu abbia, ma mi permetto di rivolgermi con il tu, visto che anche io potrei essere un nonno, pur se abbastanza giovane (almeno dentro). Scusa se ti scrivo, aggiungendomi umilmente alla lunga missiva che ti ha spedito l’illustre e coltissimo nonno. I suoi consigli sull’uso della memoria sono assolutamente apprezzabili e li condivido appieno, ma la Eco di alcune sue parole, all’interno della lettera pubblicata sull’Espresso, e dunque letta da tantissime persone di ogni tipo, e in particolare i suoi esempi riferiti alla condizione delle persone con disabilità, mi è arrivata da ogni dove, fino a spingermi a prendere carta e penna virtuali. Mi rivolgo direttamente a te, perché non me la sento di competere con cotanto avo. Ma andiamo con ordine.

So che stai esercitando la memoria, come ti chiede il Nonno, ma nel caso ti fossi dimenticato alcune sue frasi, le riporto qui: “Ma se non cammini abbastanza diventi poi “diversamente abile”, come si dice oggi per indicare chi è costretto a muoversi in carrozzella. Va bene, lo so che fai dello sport e quindi sai muovere il tuo corpo, ma torniamo al tuo cervello – scrive nonno Umberto – La memoria è un muscolo come quelli delle gambe, se non lo eserciti si avvizzisce e tu diventi (dal punto di vista mentale) diversamente abile e cioè (parliamoci chiaro) un idiota. E inoltre, siccome per tutti c’è il rischio che quando si diventa vecchi ci venga l’Alzheimer, uno dei modi di evitare questo spiacevole incidente è di esercitare sempre la memoria”.

Ecco, come vedi il grande Umberto usa due volte un termine ben preciso, “diversamente abile”. Ti assicuro che questa ipocrita locuzione non mi piace affatto, anzi non piace ai diretti interessati di tutto il mondo, che infatti, alle Nazioni Unite, hanno detto chiaro e tondo che siamo “persone con disabilità”. Persone, capisci? Ovvero ognuno di noi, sia che viva come me in sedia a rotelle (o carrozzina: non carrozzella, come scrive il Nonno, perché la carrozzella è quella che circola nelle vie del centro di Roma o di Firenze, tirata da cavalli), sia che usi un bastone bianco, o non ci senta, o abbia dei deficit di natura intellettiva, è prima di tutto una PERSONA, ha un nome, una dignità, un posto nella società esattamente come te e come tutti coloro che non hanno alcuna apparente disabilità. Non siamo “diversamente abili”: siamo quello che siamo, più o meno abili, più o meno in grado di rappresentare noi stessi con la parola o con lo sguardo o in altro modo. Scusami se insisto, ma capisci bene che avere un Nonno così colto e autorevole potrebbe farti pensare che ogni sua parola è vera e giusta, perché parla quasi “ex cathedra” pur rivolgendosi apparentemente solo all’amato nipotino.

Già che ci siamo: io e i miei amici in sedia a rotelle non siamo “COSTRETTI” a muoverci in carrozzina. Al contrario: siamo “LIBERI” di muoverci GRAZIE alla carrozzina, che è solo un ausilio tecnologico, manuale o elettronico, sempre più evoluto e personalizzato, che ci aiuta a superare la nostra impossibilità di camminare. Chiaro? Mi sembra una precisazione utile, nel caso tu, incontrando una persona in sedia a rotelle, pensassi magari di dirgli, memore delle parole di tuo nonno: “Ciao idiota diversamente abile! Poverino, sei costretto in carrozzella…”. Ecco, non te lo consiglio. Se trovi per caso una persona paraplegica che fa sport è capace che ti tira un paio di cartoni che non sai neppure da dove sono arrivati. Occhio dunque: il nonno Umberto è un grande saggio sulle cose che conosce meglio, ma anche lui è “diversamente colto” e magari sulla disabilità è rimasto un po’ indietro nel tempo, e si basa sui luoghi comuni, sui pregiudizi, dei quali peraltro, da attento studioso delle parole e del loro significato, dovrebbe ben guardarsi. Diglielo tu, se puoi, io preferisco rivolgermi ancora a te per qualche piccolo dettaglio.

Non vorrei aver capito male, ma nelle frasi di nonno Umberto c’è quasi l’eco lontana di un’idea sbagliatissima, molto popolare, anzi popolana. Una volta si diceva: “La gatta frettolosa ha fatto i figli ciechi”. Ecco, c’è la convinzione (oggi assai meno diffusa) che la disabilità sia in qualche modo una colpa, o venga causata da un nostro comportamento sbagliato: “se non cammini abbastanza…”, “se non eserciti la memoria…”. Già. Pensa che in passato le mamme indicavano con il dito la persona “handicappata” quando, volendo rimproverare i loro figli “sani” magari per la loro vivacità, stabilivano questo impietoso confronto, quasi un monito “a non diventare come loro”. Ecco: questo tipo di cultura allontana, emargina, stigmatizza ed è sinceramente grave che ancora oggi si faccia ricorso ad argomenti così maleducati ed avvilenti.

Caro nipote, probabilmente non c’era neppure bisogno che ti scrivessi, perché la tua generazione per fortuna è abituata da tempo a vivere insieme ai ragazzi e alle ragazze con disabilità, grazie al sistema scolastico italiano, che fortunatamente non ha dato retta ai consigli del pedagogo Eco. Perciò, se puoi, fammi un regalo: spiega tu al nonno come ci si deve comportare, e stupiscilo con una citazione inglese: “See the person, not the disability”. Buona vita, ragazzo.

Fonte: dal Blog “inVisibili”, corriere.it

Conferenza e mostra progetto HABM

log HABMHABM – The Holocaust of All. Battle of the Memory

CON L’ADESIONE DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Il giorno 27 gennaio 2014, dalle ore 8.30 alle ore 17.30, presso la Biblioteca Nazionale “V. Emanuele III”, Piazza Del Plebiscito, 1 – Napoli, DPI Italia Onlus, organizza la Conferenza Internazionale “Il rispetto dei diritti umaniper una cittadinanza attiva”. Lo stesso giorno, nello stesso luogo, alle ore 18.00, sarà inaugurata una Mostra Multimediale che sarà visitabile dal lunedì al venerdì dalle ore 10.00 alle ore 17.30, fino al 7 febbraio 2014. Questa importante iniziativa nasce all’interno del Progetto “HABM: The Holocaust of All. Battle of the Memory”.

Scopo del progetto, e degli eventi che qui vi proponiamo, è stato quello di riportare alla memoria dei cittadini europei lo sterminio nazista delle persone con disabilità. Il fine è di offrire a noi cittadini gli strumenti culturali e storici per partecipare in modo consapevole alla costruzione di un’ Europa unita e democratica in cui la diversità è un valore che arricchisce, piuttosto che una negatività da eliminare.

Considerato lo spessore culturale e formativo della Conferenza e della Mostra, Vi ringraziamo per l’attenzione che vorrete dedicare a questo evento e Vi preghiamo di promuoverlo nella vostra rete.

Appuntamento a Napoli il giorno 27 gennaio 2014, ore 8.30. Vi aspettiamo

 

Leggi il programma e la locandina in italiano

PROGRAMMA CONFERENZA INTERNAZIONALE PROG HABM

locandina HABM presidente repubblica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Read the program and the flier in english

PROGRAMME INTERNATIONAL CONFERENCE PROJECT HABBM ENG

 

EXHIBITION  HABM EN

Donne con disabilità: la ruota del potere e del controllo

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Modigliani- Ritratto di Jeanne Hebuterne, 1919

In questo 25 novembre che è la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne, dedichiamo un approfondimento alle discriminazioni e alle violenze subite dalle donne con disabilità, soffermandoci in particolare su uno strumento elaborato negli Stati Uniti (la “Ruota del potere e del controllo”), particolarmente adatto a coglierne le molteplici sfumature
di Marta Sousa*

Fonte: superando.it – Molte violenze e comportamenti di abuso nei confronti delle donne con disabilità non sono concepiti come tali né da chi li esercita, né dalle stesse donne con disabilità, né dalla società. Per questo motivo è quanto mai utile provare a descrivere tali pratiche in modo preciso e dettagliato. La psicologa Marta Sousa ha accettato di cimentarsi con questo difficile compito.

Il 25 novembre, è la Giornata Internazionale per l’Eliminazione della Violenza contro le Donne e riteniamo giusto che in tale occasione si parli anche delle discriminazioni e delle violenze subite dalle donne con disabilità. Il fatto di ignorare o disconoscere tali violenze, infatti, rappresenta un’ulteriore forma di violenza. (Simona Lancioni)

Il tema della violenza sulle donne con disabilità è ancora abbastanza sotterraneo nelle discussioni sulla violenza che, ai giorni nostri, costituiscono una cronaca quasi quotidiana.
Per violenza si intende qualsiasi azione che provochi sofferenza fisica, sessuale o psicologica, includendo anche la sola minaccia di espletare detta azione, coercizione, o privazione arbitraria della libertà. L’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani (OHCHR) delle Nazioni Unite descrive la violenza come un’azione «esercitata tramite la forza fisica, la costrizione legale, la coercizione economica, l’intimidazione, la manipolazione psicologica, i raggiri e la disinformazione». La violenza sulle donne è figlia delladiscriminazione di genere che informa le strutture sociali, economiche e politiche.
Ci sono diversi fattori che espongono le donne con disabilità (ma anche gli uomini) a un rischio più elevato di subire violenza. In primo luogo queste persone sono ancora considerate come incapaci di prendere decisioni autonomamente. A ciò si aggiunga che spesso sono isolate socialmente o che vivono in strutture residenziali e anche quando vivono in famiglia, e i caregiver [le persone che prestano assistenza, N.d.R.] sono solitamente dei parenti stretti, ciò non esclude che siano proprio questi ultimi ad agire, talvolta inconsapevolmente, una violenza sulle persone di cui si prendono cura.

Le donne con disabilità, poi, subiscono una doppia discriminazione, in quanto donne e in quanto disabili.
Tutte le donne vittime di violenza incontrano difficoltà che spesso rendono molto problematico il riconoscimento della violenza stessa, e l’avvio di un proprio percorso di fuoriuscita da essa. Le barriere culturali, la non consapevolezza dei propri diritti e la dipendenza economica costituiscono i principali ostacoli al processo di autodeterminazione ed emancipazione delle donne vittime di violenza. Per le donne disabili, tali barriere sono ancora più forti.
La violenza sulle donne con disabilità resta per altro ancora invisibile perché frequentemente essa viene considerata intrinseca alla presenza della disabilità. La doppia discriminazione pervade tutti gli aspetti della vita di queste persone, ed è provato come esse subiscano più atti di violenza in differenti contesti: nelle loro case o nelle strutture che le ospitano, nelle mani dei loro familiari più prossimi, caregiver o estranei, nella comunità, nelle scuole e in altre istituzioni pubbliche e private.

"Ruota del potere e del controllo: le persone con disabilità e i loro caregiver"

La violenza è stata oggetto di numerosi studi e, nel tentativo di descriverla, sono stati creati degli strumenti adatti a coglierne le molteplici sfumature. Uno di essi è la “Ruota del potere e del controllo”, sviluppata negli Anni Ottanta/Novanta all’interno di un progetto di intervento sulla violenza domestica realizzato a Duluth, nel Minnesota (USA).
La finalità della “ruota” è proprio quella di rendere le donne più capaci di riconoscere il comportamento di abuso. Un’ulteriore sviluppo di questo strumento (la Power and Control Wheel: People with Disability and Their Caregivers) ha consentito poi di descrivere la violenza all’interno del rapporto tra la persona con disabilità e il suo caregiver.
Partendo infatti dalle narrazioni delle donne vittime di violenza, si è giunti a individuare una tipologia di possibili comportamenti di abuso usati dall’aggressore per esercitare e mantenere il controllo sulla vittima.
Dobbiamo anche tenere presente che sebbene le violenze fisiche e sessuali siano più facilmente riconoscibili e visibili, e anche quelle più raccontate dagli organi d’informazione, molto spesso esse sono l’esito di un’escalation di altri tipi di abuso che, non essendo percepiti come tali, e risultando meno facilmente individuabili, determinano una modalità di intimidazione e di controllo della relazione.

Il ciclo della violenza inizia e si perpetua sempre all’interno di relazioni disfunzionali, spesso fondate su una distribuzione asimmetrica del potere, e non sulla cura e il rispetto reciproco. Di seguito elenchiamo i segmenti (gli “spicchi”) che compongono la citata “Ruota del potere e del controllo” (qui a fianco riportiamo l’immagine relativa alla versione inglese), segnalando che all’interno di quest’ultima – essendo stata elaborata nel contesto statunitense -, alcuni aspetti presi in considerazione andrebbero rivisitati e adattati al contesto italiano. Tuttavia essa è comunque uno strumento molto interessante perché è ancora abbastanza difficile trovare descrizioni così dettagliate dei tanti modi utilizzati per esercitare un potere e un controllo oppressivo nei confronti delle persone con disabilità.

La “ruota del potere e del controllo: le persone con disabilità ed i loro caregiver
Coercizione e minacce

Minacce di ferire la persona, di sospendere l’assistenza e i diritti di base. Minaccia di porre termine al rapporto e lasciare la persona incustodita. Minaccia di un rapporto non conforme agli accordi [il testo originale inglese si riferisce, presumibilmente, ai contratti per la prestazione di assistenza retribuita, N.d.R.]. Minaccia di utilizzare strumentazioni più invasive. Utilizzare l’influenza e le punizioni per ottenere obbedienza. Esercitare pressioni per coinvolgere la persona in frodi o altri crimini.
Intimidazione
Alzare le mani o usare sguardi, azioni e gesti per creare paura. Distruggere la proprietà e abusare degli animali domestici. Maltrattare gli animali utilizzati per prestare assistenza alla persona con disabilità. Mostrare delle armi.
Prerogative del caregiver
Trattare la persona disabile come un bambino o un “servo”. Prendere decisioni unilaterali. Adottare un’interpretazione restrittiva del rapporto di assistenza, limitando i ruoli e le responsabilità. Fornire assistenza con modalità che accentuano la dipendenza e la vulnerabilità della persona. Dare pareri propri come se fossero della persona di cui ci si prende cura. Negare il diritto alla riservatezza. Ignorare, scoraggiare o vietare l’esercizio della piena capacità.
Isolamento
Controllo dei contatti con amici, parenti e vicini di casa. Controllo dell’accesso al telefono, alla TV, alle notizie. Limitare le possibilità di lavoro vincolandole agli orari del caregiver. Scoraggiare i contatti con il case manager [la figura responsabile della gestione del progetto assistenziale relativo alla persona con disabilità, N.d.R.] o con l’avvocato.
Negare o giustificare l’abuso
Negare il dolore fisico ed emotivo delle persone con disabilità. Giustificare le regole che limitano l’autonomia, la dignità e le relazioni utilizzando come pretesto l’efficienza operativa del progetto assistenziale. Giustificare l’abuso come se fosse un normale comportamento inerente la gestione o lo stress del caregiver. Attribuire l’abuso alla presenza della disabilità. Sostenere che la persona con disabilità non è una fonte attendibile nel descrivere gli abusi.

"Ruota del potere e del controllo", con illustrazioni per persone sorde

Trattenere, usare impropriamente, o ritardare il sostegno necessario
Sedare la persona con disabilità, attraverso l’impiego di farmaci, al solo scopo di assecondare le esigenze del caregiver. Mancata osservanza dei requisiti di sicurezza degli ausili. Rompere gli stessi ausili o utilizzarli impropriamente. Rifiutarsi di utilizzare o distruggere i dispositivi di comunicazione adoperati dalla persona disabile. Sospendere le cure o usare dispositivi per immobilizzare la persona. Impiego di attrezzature per torturare le persone.

Abusi economici
Usare la proprietà e il denaro della persona con disabilità a beneficio del caregiver. Rubare. Utilizzare beni o denaro come ricompensa o punizione al fine di condizionare il comportamento della persona disabile. Prendere decisioni finanziarie sulla base dell’esigenze dell’ente che eroga i servizi di assistenza o della famiglia del caregiver. Limitare l’accesso alle informazioni finanziarie e alle risorse, determinando un inutile impoverimento della persona con disabilità.
Abuso emotivo
Punire o ridicolizzare. Rifiutarsi di parlare con la persona disabile e ignorare le sue richieste. Ridicolizzare la cultura della persona con disabilità, le sue tradizioni, la sua religione e i suoi gusti personali. Imporre un programma di trattamento di tipo comportamentale senza il consenso dalla persona con disabilità.

Considerazioni conclusive
Diventare più consapevoli dei comportamenti di abuso e maltrattamento può essere un primo passo per rendere più visibile un fenomeno dalle tante sfaccettature. Ma la visibilità e la consapevolezza, da sole, non sono sufficienti ad arginare la violenza. Bisognerebbe infatti iniziare ad investire in prevenzione, introducendo ad esempio nelle scuole corsi di educazione ai generi, alla sessualità e al rispetto delle differenze. E bisognerebbe anche finanziare di più i centri antiviolenza, e renderli accessibili e preparati ad accogliere anche le donne con disabilità.
Ancora, bisognerebbe lavorare con le persone violente per aiutarle a trovare altre modalità relazionali. Bisognerebbe insomma fare queste e molte altre cose, anche per il fatto che la violenza sulle donne (disabili e non) non è un problema delle donne, ma di tutta la società.

*Psicologa. Il presente testo è già apparso nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo “La donna con disabilità e la ruota del potere e del controllo” e viene qui ripreso, con alcuni lievi riadattamenti al contesto, per gentile concessione.

Per approfondire:
Oltre ai numerosi testi sulla materia pubblicati dal nostro giornale, la maggior parte dei quali sono qui a fianco elencati, segnaliamo anche:
– Sito dell’Associazione Frida, di Empoli (Firenze), che gestisce un centro antiviolenza adatto ad accogliere anche donne con disabilità.
– Pagina web del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) in tema di violenza rivolta alle donne con disabilità (contiene diversi documenti).
– Pagina web di DPI Italia (Disabled Peoples’ International), dedicata ai progetti incentrati sulla disabilità al femminile (tra i quali si segnala in particolare il ProgettoDisabled Girls and Women Victims of Violence. Awareness Raising Campaign and Call For Action).
– Indirizzario di centri e gruppi che si occupano di disabilità al femminile, curato dal Gruppo donne UILDM.

Il Gruppo Donne UILDM
Quattordici eventi e altrettante pubblicazioni della collana Donna e disabilità, tantissimi articoli, interviste, recensioni, adesioni a campagne ecc., organizzati per temi, varie segnalazioni di film attinenti alle donne disabili, centinaia di film attinenti alle donne disabili, centinaia di segnalazioni bibliografiche e di risorse internet schedate: è questa la produzione del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), che costituisce certamente una delle esperienze più vive e interessanti – nel campo della documentazione riguardante la disabilità – avviata nel 1998 in modo informale.
Gli obiettivi originari erano da una parte quello di raggiungere le pari opportunità per le donne con disabilità, attraverso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti, dall’altra cogliere la “diversità nella diversità”, riconoscendo la specificità della situazione delle donne disabili.
Poi, nel corso degli anni, il Gruppo ha cambiato in parte il proprio àmbito d’interesse, oltre a non essere più composto da sole donne e a non occuparsi esclusivamente di questioni femminili. La stessa disabilità è diventata uno dei tanti elementi in un percorso di integrazione e di apertura su più fronti.
Nel 2008, per festeggiare il suo decimo “compleanno”, il Coordinamento del Gruppo Donne (composto allora da Francesca ArcaduAnnalisa BenedettiValentina BoscoloOriana FiocconeSimona LancioniFrancesca PennoAnna Petrone,Fulvia Reggiani Gaia Valmarin), decise di investire di più in informazione e indocumentazione, recuperando i propri obiettivi originari, senza rinunciare all’apertura quale tratto distintivo. E così – come in un laboratorio – è iniziato un lavoro finalizzato a organizzare e rendere fruibili, attraverso il proprio spazio internet, le informazioni che circolano all’interno del Coordinamento stesso.
Un importante, ulteriore salto di qualità, infine, si è avuto con la creazione di unrepertorio (VRD – Virtual Reference Desk), che raggruppa le varie risorse fruibili in internet (in lingua italiana) di e su donne con disabilità.
Nel 2011 il Gruppo Donne UILDM (che è anche su Facebook) ha anche ricevuto da Decima Musa Caravaggio (Associazione Culturale Europea-Compagnia Teatrale) il Premio Decima Musa «per il valore di un’attività finalizzata al raggiungimento delle pari opportunità, che sottolinea e affronta il problema specifico e la situazione delle donne disabili».

Le parole sono pietre

immagine di lettere

le parole sono pietre

di Giampiero Griffo*

La lingua italiana aggiorna continuamente il proprio vocabolario: la conferma è data anche dalle nuove edizioni dei dizionari che introducono i neologismi: parole che descrivono nuovi fenomeni o che cercano di modificare precedenti definizione. Il recente vocabolario della lingua italiana Zingarelli ha introdotto ad esempio il termine “diversabile” (p. 579). «La Repubblica» ha commentato: «Muta anche il politicamente corretto: disabile ora si può dire diversabile»

La lingua, al contrario di quello che si pensa, è molto influenzata da quello che avviene nella società in cui è parlata. Quella degli Inut della Groenlandia, ad esempio, ha più di cinquanta maniere differenti di descrivere la neve, perché la neve è parte essenziale del loro habitat di vita.
In altri casi, quando si tratta di definire realtà nuove, nel giro di pochi anni si modifica continuamente la terminologia, producendo a volte un effetto di confusione. Quando poi si tratta di definire caratteristiche umane che, per trattamenti di discriminazioni e di esclusione, risultano “scomode” o “imbarazzanti”, allora il coacervo di parole che si accumulano sembra il deposito di un rigattiere o peggio ancora un museo degli orrori!

Spesso il mondo delle persone con disabilità è visto come un tutt’uno nel quale si presuppone una compattezza interna, che di fatto non esiste, venendo così a mancare la capacità di tenere conto delle specifiche esigenze e della valorizzazione delle risorse di ognuno. Sappiamo invece che si tratta di un mondo composto da gruppi di persone con caratteristiche molto lontane fra di loro, che non necessariamente si conoscono e sono in grado di comprendere i rispettivi problemi specifici. Pensare quindi di descrivere le caratteristiche delle persone con un’unica parola è la forma migliore per cancellarne l’esistenza concreta.
Ciò emerge in modo evidente nell’uso delle parole. Da un lato, i termini usati per definire gruppi di persone con caratteristiche diverse dalle nostre, dall’altro quelli utili a definire le persone che fanno parte del proprio gruppo.

È attiva da anni la discussione, a livello internazionale, che analizza i temi delladiscriminazione, della segregazione fisica, della mancanza di pari opportunità che le persone con disabilità subiscono dalla società. Cercare di fare il punto della situazione può aiutarci a comprendere meglio il perché la parola  diversabile mi sembra assolutamente senza senso, anzi foriera di conseguenze negative per le stesse persone con disabilità.

Spesso dimentichiamo che alcune parole descrivono persone. Le immagini culturali che vengono utilizzate per descrivere le persone che hanno caratteristiche ritenute socialmente indesiderabili mettono in evidenza elementi che sono diventati senso comune: in un certo senso sono i cosiddetti “miti”, cioè quelle percezioni immaginative che non hanno bisogno di essere spiegate perché sono immediatamente evidenti e socialmente accettate.
Quando poi le persone vengono ridotte agli aggettivi che descrivono alcune loro caratteristiche, il processo di cancellazione di esse giunge al culmine.

Oggi a livello internazionale si preferisce parlare di persone con disabilità, usando il termine persona al posto delle forme aggettivali come  invalidodisabile ecc., una scelta che ha il vantaggio di non attribuire all’intera persona un attributo che è solo una parte di essa e che lascia intatto un termine (persona) in sé neutro, in quanto non ha caratteristiche né positive né negative.

Un secondo aspetto da considerare è quello percettivo: tutte le terminologie usate comunemente per descrivere le persone con disabilità sono centrate su un aspetto percepito (la sofferenza, la  malattia, lo svantaggio, la patologia: tutti  elementi che descrivono una persona in negativo). Oppure attribuiscono caratteristiche limitate a una persona che, in più, viene gravata di una “semantica sociale” negativa.
Il combinato di queste soluzioni linguistiche è terribile: pensiamo per esempio a distrofico inabile o invalido incollocabile. Per questo, ad esempio, al termine sofferente psichiatrico, che ogni tanto si sente usare, il movimento delle persone che sono uscite indenni da un trattamento psichiatrico preferisce quello di sopravvivente psichiatrico, a sottolineare che la persona è sopravvissuta ad un’esperienza manicomiale o ad un momento di acuzie che, in ogni caso, in passato la etichettava per sempre.

Esiste poi l’espressione: persona che non può rappresentarsi da sola, definizione, questa, che nasce dallo sforzo di superare termini medici quali  ritardo mentale,difficoltà di apprendimentodisabilità mentale. Lo sforzo ha lo scopo di sostituire la descrizione patologica e globale della definizione, concentrandosi sulle competenze della persona.
Si tratta certamente di una definizione di impatto, ma che è anch’essa in evoluzione. Pure in questo caso, infatti, conviene riflettere sulla legislazione, che oggigiorno prevede la possibilità di differenziare le diverse situazioni.
Un tempo l’impossibilità di rappresentarsi, dal punto di vista legale, era irreversibile e riguardava l’insieme della persona (l’istituto giuridico dell’interdizione); oggi la  nuova Legge sull’Amministratore di Sostegno (Legge 6/2004) ha introdotto il concetto di interdizione parziale e reversibile.
Finalmente è possibile quindi rivedere dei giudizi che un tempo, una volta emessi, erano di condanna permanente all’esclusione sociale.
Certo, possiamo immaginare che una persona che non sa gestire il denaro possa non arrivare a gestirlo mai, ma per quanto riguarda le scelte relative a come preferisce vivere – scegliere un gelato alla fragola o alla nocciola per esempio – egli è perfettamente in grado di valutarle, prenderle ed esprimerle.

Certamente è  possibile agire bene e parlare male, in quanto i linguaggi si cristallizzano, anche se così spesso il parlare male è l’indizio di una certa superficialità e carenza di riflessione. Non bisogna però dimenticare che le espressioni corrette sono tali non solo perché “politicamente corrette”, ma anche perché non feriscono chi le riceve.

È vero che in fondo il linguaggio serve a farsi  capire, ma quando si tratta di descrivere le caratteristiche delle persone non si tratta più solo di una descrizione, ma della proiezione di una visione sociale di quelle caratteristiche.
Perciò nel caso delle persone con disabilità, non si può prescindere dalla storia che ha prodotto quella visione sociale negativa. Qui infatti la parola trasmette anche la visione che la società ha delle persone che hanno determinate caratteristiche. Nel nominalismo medievale si riteneva che i nomi fossero talmente appropriati da essere in sé l’oggetto. Vi è un fondo di verità in questa apparente esagerazione.

Il significato di una descrizione che la parola mette in evidenza ha un’oggettività percettivaparagonabile a quella delle pietre, la descrizione che viene veicolata ha un peso specifico anche molto pesante.
Spesso si percepisce il  linguaggio (nel suo significato di descrizione di qualcosa e di percezione che quella parola genera in chi la ascolta) come la rappresentazione dell’ovvietà, dimenticando che i linguaggi sono frutto di una storia: la storia delle persone con disabilità è storia di segregazione, esclusione, cancellazione sociale e le parole che identificano queste persone sono state scelte da altri, pensate attraverso un approccio culturale con la diversità che ha privilegiato la scelta di proiettare fuori da se stessi gli aspetti che la società (e le persone di quella società) riteneva negativi e socialmente indesiderabili.
Questo processo in termini linguistici ha prodotto il trasferimento di una valutazione, negativa su determinate persone. Di fatto ognuno di noi può, a un determinato punto della vita e per i motivi più diversi, vivere un’esperienza di follia: Franco Basaglia ha messo in evidenza che ognuno ha dentro di sé questa possibilità e, semplicemente, chi è in manicomio non è sopravvissuto a questa evenienza senza essere ricoverato.
Basaglia usava una frase che descrive bene l’unicità di ogni persona: «visto da vicino nessuno è normale». Dobbiamo essere consapevoli di questo e ricordare sempre che le parole sono come pietre e vanno usate con molta attenzione.

Naturalmente i termini che descrivono le persone con disabilità sono in evoluzione continua, proprio perché il movimento di emancipazione mondiale conquista ogni giorno di più forza e coscienza della propria condizione.
Esaminando la legislazione italiana si vede chiaramente il processo che ha portato da termini come invalidi o inabili, in un mondo in cui esistevano le classi speciali e gli istituti, ai termini di handicappati o portatori di handicap, diventati comuni con la Legge quadro sull’handicap 104/92, che agiva in una società che rivendicava l’integrazione sociale, sottolineando lo svantaggio sociale che la società stessa produceva.
Vi era ancora in quella descrizione un’attribuzione negativa alla persona che soggettivamente veniva gravata di una negatività.
Il passo successivo ha portato alla definizione di persone con disabilità, quella attualmente riconosciuta e accettata dal movimento internazionale, in cui al concetto di persona – universalmente accettato e ritenuto positivo – si accomuna un’attribuzione ricevuta: quel“con”, infatti, descrive qualcosa che non appartiene a quella persona, ma gli è imposto.
Infine, il concetto di disabilità è mutuato dalla recente definizione dell’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, Disabilità e Salute) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): la disabilità è prodotta dal rapporto tra le caratteristiche delle persone e l’ambiente in cui esse vivono e le capacità che le persone stesse hanno sviluppato.
Muovendomi in sedia a rotelle, ho una disabilità quando il luogo in cui mi muovo ha dislivelli in verticale superabili solo con scale o quando – orientandomi con un bastone bianco – non vi sono pavimentazioni o guide sonore che consentano di spostarmi in sicurezza. In ambedue i casi, la disabilità non è un fattore soggettivo (dovuto a cecità o paralisi agli arti inferiori della persona), bensì è causato da una società che non ha progettato per tutti.
Lo stesso vale per le capacità soggettive, che se sono rafforzate e potenziate consentono di superare altri ostacoli e barriere: pensiamo al conseguimento della patente di guida per una persona che vive in una città con autobus inaccessibili o a una persona che non è in grado di svolgere compiti complessi a cui viene offerto un lavoro con mansioni semplici e ripetitive.
La disabilità dipende quindi dall’invisibilità sociale e politica (delle persone con disabilità si occupano solo la sanità e l’assistenza) che cancella spesso le responsabilità ad agire di chi si occupa di trasporti, di turismo, di lavoro, di tempo libero. E nello stesso tempo dipende dall’impoverimento sociale cui le persone con disabilità sono state sottoposte: chiuse in famiglia, in istituto, in classi speciali, esse sono state letteralmente impoverite di competenze sociali.

Oggi, il nuovo approccio dell’ICF ha quasi eliminato anche un’altra negatività che veniva attribuita a chi conviveva con una disabilità: la medicalizzazione (il concetto di menomazione come elemento che produce l’handicap). Nell’ICF, infatti, si parla di strutture e attività,  termini più generici che appartengono a tutti, talché la disabilità è una condizione ordinaria della vita che appartiene a tutto il genere umano nell’arco della propria esistenza e non è legata ad una condizione di malattia.
Purtroppo ancor oggi per poter beneficiare di determinati diritti e provvidenze si usano definizioni medicalizzanti o negative, utilizzate negli accertamenti diagnostici, che portano all’uso di linguaggi descrittori sanitari (certificati medici, scolastici ecc.). Questo linguaggio confonde purtroppo la soglia oltre la quale poter godere di un beneficio o di una provvidenza, con la pretesa di descrivere la persona. Bisogna quindi costruire un linguaggio che faccia capire come le persone sianoun insieme di caratteristiche e che questo insieme compone una persona che non può essere ridotta ad una di queste caratteristiche (spesso solo quelle considerate negative).

Cosa ci propone invece l’inaccettabile diversabili?
Innanzitutto riduce una persona ad un suo eventuale attributo, cancellandone le specificità. In secondo luogo, l’attributo che viene scelto per definire la persona appartiene a tutte le persone: conoscete persone che possano essere definite “ugualabili”? Cioè le cui capacità e abilità siano uguali a quelle della persona che gli sta a fianco sul tram? E ancora, è più diversabile la persona che non sa guidare un’auto da quella che guida con i comandi a mano? Ha più diverse abilità l’analfabeta rispetto al non vedente che legge con la sintesi vocale?
Il termine infine produce un ulteriore elemento negativo: cercando di definire – secondo chi lo utilizza – in maniera positiva le capacità delle persone, cancella la condizione di discriminazione e di mancanza di pari opportunità che queste stesse persone subiscono dalla società e dai processi di impoverimento.
Non è un caso che negli ultimi anni questa definizione assolutamente inappropriata venga a nascondere un abbassamento dell’impegno delle istituzioni e della società nel suo complesso: «se sono diversabili – ci dice questa parte della società – allora non ho più nulla da fare, se la risolveranno con le loro forze…».
Viene così di nuovo relegata nel privato la soluzione degli “eventuali” problemi.

Vorrei concludere il mio intervento ricordando quello che sottolineavo prima: le categorializzazioni astratte producono classificazioni semplificatorie e processi di invisibilità sociale.
Non è un caso che la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) rivendichi la personalizzazione degli interventi, i progetti individuali, gli interventi che partono dalle violazioni di diritti umani che le persone con disabilità e le loro famiglie vivono ogni giorno.
Il bisogno deve arrivare ad essere così chiaramente espresso da far emergere quella sorta di normalità che appartiene a ciascuno. Personalizzando si scopre che tutte le persone vogliono vivere una migliore qualità della vita e hanno bisogno di determinati servizi per conseguirla: non si attribuisce più niente di negativo alle persone, si prende atto di necessità, bisogni, desideri.
Questo semplice approccio richiede una maggiore attenzione alla condizione delle persone svantaggiate, ma a ben riflettere è appropriato per tutte le persone.

Certamente è vero che le persone con disabilità fanno alcune cose in modo differente, ma la differenza non ci fa diversamente abili: chi usa da anni una carrozzina non la usa in modo diverso da chi cammina con le proprie gambe, semplicemente la usa, mentre l’altra persona non ci si è neanche mai seduta sopra.

La dura realtà è che è ancora lunga la strada per far accettare le diversità umane come ricchezza: il colore della pelle, le credenze religiose, l’orientamento sessuale, l’età, la condizione di disabilità sono ancora considerate caratteristiche socialmente indesiderabili. E sono solo queste diversità che producono lo stigma sociale negativo che la società ci attribuisce, per cancellare il trattamento diseguale e discriminatorio che ha riservato alle persone che avevano quelle caratteristiche. Ricondurre ad ordinarietà tutte le caratteristiche umane è l’obiettivo di un linguaggio rispettoso e inclusivo.

Il movimento mondiale delle persone con disabilità è stato capace di usare nuovi linguaggi e nuove forme di descrivere il mondo che non esclude: universal designempowerment,mainstreaming sembrano parole lontane, ma diventeranno presto reali quando laConvenzione dell’ONU per la Tutela della Dignità e i Diritti delle Persone con Disabilità darà un’altra spallata all’imbarazzo di chi pretende di descriverci con le sue parole.

10 ottobre 2005

Pubblicato sul sito: www.superando.it

Il desiderio di partire tutti dallo stesso punto

di Maria Vincenza Ferrarese, Emilia Napolitano e Rita Barbuto*

Si arricchisce ulteriormente l’ampio dibattito da noi avviato, a partire dal documento intitolato “L’approccio bioetico alle persone con disabilità”, recentemente prodotto dal Comitato Nazionale di Bioetica della Repubblica di San Marino, con la presente opinione espressa dalle principali esponenti di DPI Italia (Disabled Peoples’ International)

L’intervista a Luisa Maria Borgia e i successivi interventi di Simona Lancioni e Giampiero Griffo [si veda qui a fianco l’elenco di tali testi, N.d.R.], pubblicati su queste stesse pagine nel luglio scorso e riguardanti il documento L’approccio bioetico alle persone con disabilità, prodotto dal Comitato Nazionale di Bioetica della Repubblica di San Marino, affrontano una questione troppo complessa per essere ridotta semplicemente alla dicotomia “aborto sì-aborto no”.[mantra-multi][mantra-column width=”1/4″] [/mantra-column] [mantra-column width=”1/2″][/mantra-column] [mantra-column width=”1/4″] [/mantra-column] [/mantra-multi]
La complessità, di cui sopra, sta nel senso e nel valore che una persona, sia essa con disabilità o meno, dà alla propria vita ed è questo che determina, a nostro avviso, la funzione più o meno  terapeutica del suddetto aborto.

Il plauso va sicuramente al Comitato Sammarinese di Bioetica, al quale bisogna riconoscere la sensibilità e la volontà di accogliere la disabilità all’interno delle proprie riflessioni scientifiche. E ancor di più di avere compreso, accettato e fatto proprio il modello della disabilità basato sui diritti umani, tanto rivendicato da noi, persone con disabilità, perché l’unico in grado di restituirci la serenità con cui poter superare le barriere culturali e psicologiche che etichettano negativamente la nostra esistenza.
D’altro canto, come dar torto a Lancioni che, da donna, ha paura di una “ventata antiabortista” e delle conseguenze che ne potrebbero derivare? Non dimentichiamo, affatto, il significato che ha avuto per noi donne la Legge 194 del 1978, che ci ha fornito consistenti strumenti di tutela sanitaria, psicologica e sociale, i quali ci hanno condotto verso una profonda emancipazione, che ha fatto sì che diventassimo più consapevoli e presenti a noi stesse e agli altri.
E tuttavia, di fronte a tale discussione, dove è un po’ come un “bere o affogare” – prendersi cioè cura del feto o prendersi cura della donna? – non possiamo esimerci dal renderci conto che la situazione di un aborto “terapeutico” è densa di mille interrogativi, molti dei quali non hanno e non avranno mai una risposta.

Ci chiediamo dunque: cosa fare in questo caso? Una cosa che viene da suggerire è metterci nella condizione di immaginare noi stessi quando eravamo nella pancia delle nostre madri. Il suggerimento è per chiunque, persone con disabilità e non! Crediamo, infatti, che nessuno (o comunque ci è difficile pensare che qualcuno possa avere un’idea diversa) riesca a pensare al mondo senza la sua presenza. Il senso di esclusione e di paranoia che ne deriverebbe avrebbe conseguenze devastanti sul potenziale di un’esistenza che sta per essere alienata e disintegrata!
E allora chi c’è al di fuori del “buco” (così recitava una barzelletta di un bambino nato che voleva rientrare nel ventre materno) che mi tutela contro questa possibilità di dissoluzione di me, feto? E se sono un “brutto feto”, riuscito male, può accadere che invece io abbia il piacere e la curiosità di scoprire il mondo là fuori? O già è tutto predeterminato?
La posizione di Griffo relativa all’aver riconosciuto come discriminatoria la clausola b) dell’articolo 6 della Legge 194/78, dove è lecito abortire dopo il novantesimo giorno, se il feto presenta processi patologici, non deve far temere le donne. Queste ultime non possono a nostro avviso non confrontarsi con se stesse, quando si era un feto!
Per qualche aspetto, il discorso assume sì un carattere antiabortista, ma cosa fare in questo caso? Chi mi dà infatti la sicurezza che io, feto “mal riuscito”, danneggio la salute fisica e psichica di mia madre e chi mi dà la sicurezza che invece mio fratello o mia sorella, fatti nascere perché “sani”, non siano invece tanto deboli e fragili da ricorrere, ad esempio, a sostanze stupefacenti, danneggiando la salute psichica di mia madre che si dà da fare per soddisfare il loro bisogno di dipendenza? E allora come si esce da questa impasse, dove feto e madre “tirano la coperta”, troppo piccola, dalla propria parte?
Le risposte possono essere scelta, responsabilità, consapevolezza, ma anchecoraggio, amore, possibilità. Riteniamo, pertanto, che la donna debba decidere per sé e che anche il feto debba essere messo nelle condizioni di dar voce ad ogni suo atomo, ad ogni sua molecola!
In realtà un’unica risposta non c’è, ma c’è un desiderio di partire tutti dallo stesso punto, da un riconoscimento uguale per tutti, a incominciare da quando si è feti, quello che non ci consente il differente trattamento della clausola b) dell’articolo 6 della Legge 194/78!

Ci auguriamo a questo punto che altre donne, con disabilità e non, possano dare il loro contributo, immaginando la loro potenziale non vita! Ma immaginando anche un mondo in cui la disabilità sia una normale condizione di vita, una particolarità della nostra persona, un modo differente di agire e vivere la propria vita, nulla che escluda o neghi il diritto di vivere in libertà e con dignità. È un mondo che tutti dovremmo contribuire a costruire, perché la disabilità – nell’arco di una vita – è un’esperienza che vivranno tutte le persone, come afferma la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità.
Pertanto, piuttosto che investire il nostro tempo e le nostre energie in contrapposizione pseudoideologiche, cerchiamo di affrontare insieme le reali questioni relative alla qualità della vita delle persone con disabilità che non dipende di certo dalla condizione soggettiva della persona, bensì dal livello di inclusione che offre la società in cui vive e che dipende anche dalle risorse che si mettono in campo per garantire i suoi diritti umani.
La verità vera è che ancora oggi, purtroppo, nonostante la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e un gran blaterare di diritti umani, non discriminazione, emancipazione eccetera eccetera, il problema sostanziale è quello di avere servizi adeguati e personalizzati che aiutino le persone con disabilità e le loro famiglie – quindi anche quella mamma che, come dice Lancioni, «sceglie liberamente e consapevolmente di abortire» –  ad autodeterminarsi e quindi a vivere una vita degna di essere vissuta.

*Rispettivamente Presidente, membro della Segreteria Operativa e Direttore diDPI Italia (Disabled Peoples’ International). Rita Barbuto è anche Regional Development Officer di DPI Europe.
Pubblicato sul sito: www.superando.it